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12/01/11

Acoustic Surf



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Apparso sul sito della Patagonia nel Settembre del 2010, questo articolo dovevamo assolutamente tradurlo e proporvelo.... non che si debba iniziare tutti a surfare senza pinne, ma anche solo fermarsi un momento per andare oltre la manovra, tornando alla vera essenza del surf: SCIVOLARE sull'onda....
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Il concetto di surfare finless esiste sin dagli albori dello sport stesso.



Scattata alla fine del 19° secolo, quando gli occidentali erano quasi riusciti a schiacciare il ‘dissoluto’ atto di surfare, questa foto rappresenta uno degli ultimi alaia surfers, ovviamente prima del suo recente ritorno in auge.    
Questa immagine icona, in mostra al Bishop Museum hawaiano, rappresentante un ‘nativo’, lo sguardo rivolto alla line-up di Waikiki, con Diamond Head incombente sullo sfondo, mentre tiene una tavola alaia senza pinne dietro di lui, è ormai parte integrante della storia della fotografia del surf, alla stregua dei drop di Greg Noll a Waimea, dei cutback di Tom Carroll a Pipeline o della ‘Millennium Wave’ di Laird Hamilton.     
Gli occidentali hanno “scoperto” e iniziato a praticare lo sport del surf agli inizi del 20° secolo, utilizzando un’attrezzatura senza pinne, visto che non vi era alcuna alternativa.  
Ma nel 1935, un ragazzo del New Jersey chiamato Tom Blake ha rivoluzionato il mondo del surf. Nonostante si possano attribuire a Blake una formidabile quantità di innovazioni, quella per la quale è indubbiamente maggiormente ricordato è di aver recuperato una deriva in legno di un piede di lunghezza da una barca e di averla attaccata al tail della sua tavola cava in legno. Questo momento storico ha cambiato per sempre il concetto del surf. Ora si potevano fare curve più strette e disegnare linee più radicali; la tavola non scarrocciava più nei momenti meno opportuni. In effetti, ha segnato la nascita di un nuovo sport.      
Bob Simmons ha applicato una seconda pinna e Simon Anderson una terza, creando il thruster che è ormai onnipresente. 

Tom Blake – padre e fondatore del finned surfing

E’ innegabile che l’aggiunta delle pinne alle tavole da surf abbia notevolmente influenzato questo sport. I surfisti ora possono fare manovre da togliere il fiato, surfare in tubi profondi e su onde enormi con pareti incredibilmente ripide, mantenendo comunque il trim e la stabilità della tavola, allargando in maniera esponenziale il potenziale del surf. Ma in un certo senso la creazione determinante di Blake ha segnato la fine del surf nella sua forma più essenziale.       
Recentemente però, stiamo vedendo un crescente, rinnovato interesse per questi modelli più antiquati. Alcuni dicono che il surf abbia imparato a correre prima ancora di imparare a camminare, scartando come obsoleti principi di design prima ancora che potessero essere propriamente esplorati. Attualmente sui nostri surf spot si vedono una serie di tavole meno convenzionali, principalmente i cosiddetti fish ‘retro’ anni ’70.           
Molti amanti del surf moderno rifuggono la rinascita di questa tendenza, affermando che se non ha funzionato ai tempi, non funzionerà neanche adesso.  
Ma con i progressi fatti nel design delle tavole moderne, in termini di materiali, di progettazione dei rail e delle tavole, di progettazione e posizionamento delle pinne, queste concezioni non sono mere rivisitazioni nostalgiche, ma alternative altamente possibili e applicabili anche alle shortboard moderne.      
Negli ultimi dieci anni, questa attività di esplorazione e re-interpretazione delle innovazioni passate ha scavato sempre di più nei meandri del surf antico.
Il surfista/shaper Tom Wegener, impegnato da tempo a fare tavole in balsa e paulownia  con shape più moderni, ha voluto andare oltre, semplificando, in un certo senso, le sue tavole per scoprire la vera essenza dell’esperienza del surf nella sua forma più naturale.     


Un amico di Tom, lo shaper di Valla Surfboards Paul Joske, ispirato da Tom ‘Pahaku’ Stone dell’Università delle Hawaii, che aveva meticolosamente riprodotto alcune tavole storiche, dopo una visita al Bishop Museum poco prima del nuovo millennio iniziò a sperimentare con tavole senza pinne ‘hot curl’ e ‘kekoa’, ottenendo diversi gradi di successo. Joske ha poi passato il testimone al figlio Sage, che, con Derek Hynd, ha surfato onde double overhead a Bells Beach, sulla costa sud australiana, con una tavola senza pinne che aveva chiamato Kumu, ‘maestro’ in hawaiano.           
Ispirato dalla sua collaborazione con i Joske, Wegener visitò lui stesso il Bishop Museum, dove si possono ammirare alcune delle tavole da surf più antiche del pianeta. Lo scopo della visita di Wegener era la olo, la tavola originale dei re. Spessa, pesante, lunga e drasticamente convessa sopra e sotto, la olo era la tavola riservata esclusivamente ai reali, i migliori e più abili early surfers. Ma ciò che scoprì accidentalmente avrebbe fatto a pezzi anche il suo concetto di surf moderno.  
“Il concetto di tavola finless mi è venuto guardando le tavole al Bishop Museum. Ai tempi facevo malibu con pinne ma non avevo ancora la concezione di fare tavole senza pinne.”   
“Quando sono arrivato al museo, ero pronto a shapare una olo, e l’ho fatto, ma quello che mi ha colpito profondamente erano le tavole alaia. Mi sono detto ‘Santo cielo! C’è qualcosa di incredibile che non riesco nemmeno a comprendere, ma chiaramente queste tavole da surf sono molto speciali e noi non le conosciamo affatto’”. 
Durante i due anni successivi, Wegener lavorò per creare e rifinire tavole alaia – per quanto ne sapeva lui, era il primo nel mondo del surf contemporaneo a intraprendere questa impresa. I suoi primi tentativi erano abbastanza soddisfacenti, ma c’erano ancora una marea di elementi del design che aveva tralasciato o che doveva ancora riscoprire.         
“La prima tavola andava benino, ma noi pensavamo che andasse alla grande visto che era la prima.  Ma poi abbiamo realizzato che scarrocciava sempre lateralmente su onde ripide.”
Questo diede il via ad un processo di sperimentazione e miglioramenti che portò, facendo diversi passi avanti, alla realizzazione di una funzionante e, infine, autentica tavola alaia. Furono arrotondati i rail, a svantaggio del design, venne reso il bottom convesso, di nuovo riducendo la manovrabilità della tavola, e vennero introdotti rail paralleli, poi entrarono in gioco diversi tipi di tail ed alla fine Wegener ebbe un’illuminazione. Un bottom convesso dava alla tavola una maggiore stabilità ed una capacità di tenere la parete molto maggiore. Ma questo, nonostante la rendesse più gestibile, andava contro molti dei principi alla base della sensazione quasi irreale che si prova nel surfare con una alaia, scivolando lateralmente piuttosto che rimanendo attaccati alla parete. Solo dopo che Wegener osservò più attentamente l’immagine originale del surfista a Waikiki vennero sviluppate le tavole concave.  
Questo dava al surfista un controllo molto maggiore, permettendogli (o –le) di recuperare il trim dopo una scivolata laterale, aprendo la mente di Wegener sul vero potenziale che le tavole recentemente riscoperte potevano avere.  

Un appassionato delle alaia, Sage Joske.
Il lavoro di Wegener aprì la strada ad altri appassionati. Alcuni erano inizialmente suoi protetti che seguirono le sue orme verso il finless surfing. Altri, come Sage Joske, si ispiravano al lavoro di Tom, cominciando un proprio percorso di sperimentazione con le alaia. 
“Per me, personalmente,” dice Sage, “l’unico motivo per il quale creo le alaia è semplicemente vivere quella parte della nostra storia, provare qualcosa di simile a quello che provavano gli hawaiani, provare sulle onde una sensazione analoga alla loro”.     
Di nuovo, in base agli artefatti contenuti negli archivi del Bishop Museum e avendo surfato per diversi anni con altri tipi di attrezzature storiche, Sage, più che essere interessato a migliorare o ammodernare queste tavole originali, voleva riprodurle esattamente com’erano. 
“Gli hawaiani probabilmente ci hanno messo migliaia d’anni per sviluppare queste tavole. Hanno un’incredibile trim speed, disegnano fantastiche linee sull’onda… con una alaia puoi andare più veloce che con qualsiasi altro tipo di tavola, e c’è qualcosa di intrinsecamente bello in tutto ciò, da un punto di vista del design, per me.”  
Joske sottolinea un punto fondamentale, ovvero che nessuno sa con certezza per quanto tempo gli hawaiani si siano occupati delle alaia. Potenzialmente, decine di generazioni potrebbero aver lavorato per arrivare a quel risultato finale. Facendo un paragone, le tavole da surf dei tempi nostri non hanno neanche raggiunto la pubertà.  
Yvon Chouinard, fondatore della Patagonia e surfista accanito, cita spesso l’aviatore francese Antoine de Saint Exupéry quando parla di design: “In qualsiasi cosa, si raggiunge la perfezione non quando non c’è più niente da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere”. 
Ma questo principio fondamentale del design significa che non vi è tavola più perfetta o più altamente rifinita di una alaia? Sicuramente se parliamo di velocità e utilizzo dell’energia dell’onda, questo è indiscutibile. 
Probabilmente il più fervido e conosciuto sostenitore delle alaia è il freesurfer Dave ‘Rasta’ Rastovich. Avendo surfato con molte tavole in legno, la scelta di Wegener è caduta su Rasta, che è stato uno dei primi surfisti a testare le sue tavole, un piacere che è stato più che mai contento di fare.   
“Quando penso alle alaia, sento di dover essere molto semplice, delicato e sensibile. La maggior parte delle tavole con pinne le puoi ‘dominare’ e sentirti forte e potente. Ma quando sali su una alaia, o qualsiasi altra tavola senza pinne, devi semplicemente calmarti, cosa che è estremamente difficile per molti di noi perché con quelle tavole devi solo rilassarti. Più delicato sei, più reattiva sarà la tavola.”
Dave Rastovich ha praticamente fatto di più di chiunque altro per lo sviluppo dell’alaia surfing. 
“Parlavo con Harrison Roach e lui mi diceva quanto siano fantastiche queste tavole nel senso che eguagliano la velocità dell’onda. Quello era un punto veramente importante, ovvero che tu trovi un equilibrio, sei in armonia con l’onda.” 
Ma queste non sono le uniche differenze rispetto alle altre tavole. Diversi anni fa, Rasta e Wegener notarono una peculiarità di queste tavole, che va contro ogni pensiero logico. Rasta spiega: “Stavamo guardando un video in cui surfavo a Noosa e abbiamo sbroccato perché quando entravo nel cavo la tavola diventava convessa, cioè si piegava verso il basso e non verso l’alto come un rocker normale. E poi, quando surfavo sulle parti piatte, diventava concava, quindi spingeva e teneva il rail. E’ un pezzo di legno molto dinamico.”       
“Gli elementi che fanno andare bene una alaia” aggiunge Wegener, “sono gli stessi che fanno andare male una tavola con le pinne. Per esempio, una tavola con pinne più lunga è solitamente più facile per surfare e prendere le onde, mentre se parliamo di alaia, più lunga è la tavola, più difficile sarà prendere le onde. Stessa cosa se prendiamo una tavola in schiuma, più spessa è la tavola e più facile sarà prendere le onde, mentre con una alaia, più fina è la tavola… quindi è tutto al contrario”.     





Dal punto di vista di un surfista, la alaia è una sfida non solo per le proprie capacità surfistiche ma anche per il concetto del surf stesso. La maggior parte delle tavole da surf contano principalmente sulle pinne per la manovrabilità, aiutate, per così dire, dal rail. Senza le pinne, un surfista dipende esclusivamente dal rail. Quando vuoi aggiustare la tua traiettoria sull’onda normalmente sposti il peso sul back foot, roteando sulle anche per cambiare la direzione della tavola. Con una alaia, invece, devi fare pressione sul rail esterno, scivolando lateralmente quando discendi l’onda.        
Vivendo e surfando vicino a Tom Wegener, Harrison Roach è stato un testimone della scoperta e dello sviluppo della alaia durante le sue fasi formative. Attualmente è uno dei migliori e più affezionati praticanti del finless surfing.  
“Non posso neanche paragonare le due cose” dice Roach. “E’ quasi più come fare snowboard che surf. Si tratta certamente di surf, ma semplicemente disegno linee diverse, è quasi come surfare con una shortboard contro un longboard.”
“Togliere le pinne da una tavola e basta è diverso, ma quando hai un pezzo di legno che funziona bene come abbiamo scoperto che funzionano le alaia dire che si tratta dell’ultimate design è un argomento più che valido. So che non è perfetto, ma riuscire a spingere oltre i limiti di una forma di surf come siamo riusciti a fare con le alaia è follia… almeno una volta a session mi dico ‘come cavolo ha fatto quella tavola a fare quella cosa?’ La guardi da un punto di vista diverso perché non sei sicuro di come guardarla. Non sei sicuro di quello che puoi o non puoi fare, mentre con una shortboard, ci sono ragazzi che hanno già fatto tutto.” 
A 1.900 chilometri di distanza, le alaia fanno scalpore anche in una sottosezione della comunità surfistica. Jarrah Lynch sta sperimentando delle alaia sulle onde più veloci e ripide del Southern Australia, con lo stesso successo.  
“Potresti dire che è solo un’asse di legno, ma in realtà ha parti concave, i rails sono rifiniti e progettati e lo stesso vale per lo shape; tutto ciò fa una grande differenza in termini di velocità e di quello che puoi fare con queste tavole.”
“Surfare con una alaia ti aiuta moltissimo anche con il surf con le pinne, perché ti costringe a usare i rail. Quando riprendi la tua shortboard ti senti molto meglio perché finalmente usi i rail come dovresti e non ti basi solamente sulle pinne. Quindi surfare con una alaia ti fa sicuramente migliorare il tuo surf con le tavole normali”.   
Sage Joske si è fatto influenzare completamente dalle alaia, a 360 gradi, emulando alcuni aspetti della tavola finless e riproducendola in poliuretano e vetroresina. Unendo elementi della alaia con elementi del fish, Sage ha creato ciò che ha chiamato The Vector.  

Sage e la sua creazione ibrida, The Vector.
“Quello che mi ha spinto a creare il mio alaia/fish ibrido è stata principalmente la voglia  di applicare il rail double-edged square ad una tavola in schiuma. La tavola ha lo shape di una alaia, il bottom roll ma alcune delle strutture di controllo del fish. Ha un fish swallow, un leggerissimo rocker e keels lunghi otto pollici ma spessi solo un pollice e un quarto, quindi fanno pochissima resistenza ma ti danno giusto quel poco di direzionalità che serve.      
“Pensavo che l’avrei fatta e che poi ci avrei surfato per qualche mese ma che non sarebbe andata granché bene. In realtà mi ci sono divertito così tanto che alla fine ne ho fatto un modello e penso che diventerà una tavola molto popolare. Penso che per me sia stato un passo logico perché, venendo da un passato fatto di schiuma e vetroresina, mi aiuta a capire meglio gli elementi della alaia. Sono abbastanza cauto nell’usare parole come  ‘bene’ e ‘meglio’… Con The Vector ci sono alcune onde che sono veramente difficili da surfare mentre altre sono molto più facili. Disegni linee completamente diverse sull’onda e ti da un’esperienza veramente unica.”        
Uno dei principali membri della comunità del finless surfing, certamente del mondo della schiuma e della vetroresina, è Derek Hynd. A differenza dei suoi fratelli appassionati di tavole in legno, le tavole di Hynd sono quasi esclusivamente create con materiali moderni – poliuretano, vetroresina e resina poliestere. Il suo passato, diversamente dai suoi diversificati stili odierni, ruotava fermamente intorno al world pro tour. Arrivato 7° al mondo lui stesso, ha continuato allenando diversi futuri atleti, tra cui anche l’ex campione mondiale Mark Occhilupo. A prima vista potrebbe sembrare un improbabile sostenitore dei più alternativi metodi surfistici ma una situazione di sovra-saturazione della commercializzazione gli ha aperto gli occhi ulteriormente ad una forma più pura dello sliding.         
“Anche quando allenavo un certo numero di surfisti per il tour non apprezzavo quello che dovevano fare in acqua per vincere le heat. Penso che aver incontrato Skip Frye all’inizio della storia sia stato determinante per convincermi che era tutto nel glide e non nello ‘spasmo’”.     
La disillusione portò Hynd a sperimentare, prima con tavole a cui aveva tolto le pinne e poi con bodyboard (o belly board) riadattati come finless quiver.
“A mio figlio vennero dati nove bodyboard da Shaun Rosen [bodyboarder sudafricano]. Avevano tutti più o meno le stesse dimensioni e io ho pensato… era la perfetta occasione per sperimentare veramente il potenziale del finless surfing modificando il bottom e i rail di ogni tavola, l’una indipendentemente dall’altra, in modo tale da poter avere una buona idea dei pro e contro dei vari shape.”   
Questo ha messo Hynd nella posizione di poter esplorare le caratteristiche e i miglioramenti delle tavole senza pinne, modificando ogni tavola dopo averla confrontata direttamente con ogni altra.
Ma mentre questo gli ha permesso di produrre tavole molto adatte ai beach break, i design per tavole adatte alle onde più lunghe dei point break sono rimasti solo un’illusione.    
“Un paio di quelle tavole che pensavo sarebbero andate bene a Jeffrey’s Bay sono andate talmente male che non ho mai apprezzato tanto il wipe out. Con ogni batosta diventavo sempre più determinato a rientrare in acqua e a creare qualcosa che funzionasse bene down the line a J-Bay.”   
La direzione in cui è andato Hynd nella storia del finless surfing è completamente diversa da quella in cui è andato Wegener, Joske ed altri, ancora di più se parliamo della scelta dei materiali. Da un lato abbiamo Wegener, intento a riscoprire e migliorare, ma pur sempre emulando i primi design hawaiani.     

Derek Hynd porta il finless surfing nel mondo della schiuma e della vetroresina.  
Dall’altro lato abbiamo Hynd, che è stato all’apice delle attrezzature più altamente performanti per poi andare oltre, facendo il passo successivo, anche se questo può essere considerato un passo inefficace o inappropriato per il forum dei contest.  
Prontamente sottolinea come il surf di Sage Joske sia la rappresentazione definitiva di questo aspetto del viaggio finless: 
“Nessuno ci surfa allo stesso modo,” dice. “Questo dev’essere stato il surf di prima della guerra [la Seconda Guerra Mondiale] quando c’erano un sacco di cambiamenti in corso in termini di design, e le persone cercavano di adattarsi ad una nuova frontiera, quando nulla rappresentava necessariamente un fallimento e le persone riuscivano a far funzionare qualsiasi tipo di tavola con cui surfassero. Quindi c’è un ampio spazio aperto davanti a noi.”      
“Prendi Sage, per esempio. Le sue capacità rappresentano uno dei più particolari approcci al surf che io abbia mai visto, data la sua incredibile unicità. E’ completamente diverso da Tom e dalla sua provenienza. Tom è così puro nella sua tecnica tradizionale. Sage invece ha lo stesso stile tradizionale ma è anche consciamente alla ricerca di un pensiero trasversale riguardo il modo migliore per farlo funzionare in termini di performance. Sia che si tratti di un quattro pinne o una alaia, collocherei Sage all’apice assoluto.”       
“Il legame con gli elementi naturali sembra più forte quando sei sull’onda giusta e surfi finless. Togliendo le pinne, tutto a un tratto, non sai più con certezza dove finirà l’onda, come si evolverà o come il surfista surferà l’onda. Secondo per secondo ti trovi davanti a nuovi, interessanti elementi. Quindi sei forzato a pensare velocemente, ma dall’altro lato delle cose, più che essere il surfista a dettare ordini alla natura, è la natura stessa a dirigere la situazione e a decidere come andrà a finire. E’ quasi un abbraccio, più che un dominio.”  
Non si può negare che il finless surfing sia completamente diverso dal surf tradizionale. Tuttavia, quello che affermano tutti i praticanti del finless surfing è che rappresenta un’esperienza unica per il surfista. La natura intrinseca di queste tavole avvicina il surfista alla natura, rendendolo incapace di combatterla o resisterle, come si fa su una tavola con pinne, e costringendolo invece a unirsi con l’energia dell’oceano e ad utilizzarla nella sua surfata. 
L’ispirazione e la stessa essenza del design delle alaia può avere una provenienza nostalgica, ma la pratica del surf con queste tavole antiche è, almeno per alcuni aspetti, l’ultima fase dell’evoluzione del surf. 
Hynd lo attribuisce ad un elemento fondamentale dello sviluppo produttivo: il tempo. “Dai tempi di Bob [McTavish], la mia teoria è che, tra il 1967 e il thruster, nessuno, ad eccezione di The Bonzer ed del localizzato Lis Fish, ha mai dedicato abbastanza tempo, più di sei mesi, ad un design prima di passare ad un altro. Se non ci metti tempo, tecnicamente, non riceverai alcuna risposta. Se puoi dedicare tempo ad un tipo di attrezzatura, ecco la risposta alla tua domanda tecnica.”      
“E’ una frontiera talmente aperta che puoi far funzionare qualsiasi cosa se quell’elemento tecnico fondamentale, il tempo, diventa il tuo miglior amico.” 
Quindi, le tavole senza pinne, sia che partiamo dal Bishop Museum o dal tunnel del vento della NASA, rappresentano in ogni caso una valida alternativa per la comunità surfistica, alla stregua dei più avanzati thruster.    
A volte l’unico modo per andare avanti è prima tornare indietro. Come riassume Tom Wegener: 
“E’ il surf più avanzato di tutti. E’ un tipo di surf che è molto più tecnico, molto più difficile e avanzato del surf normale con le pinne.”



Traduzione a cura di B. Ferri
Fonte: http://www.patagonia.com.au/journal/?p=190